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DATA: venerdì 19 aprile 2024

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Un aiuto concreto agli alunni con DSA, BES ecc.. da parte degli insegnanti di sostegno e curriculari.

In questi venti anni ed oltre di insegnamento, penso di aver visto un po’ tutto quello che succede negli Istituti di Scuola Superiore italiana. Dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest, anche se gli edifici scolastici cambiano dal più moderno a quello più obsoleto, il materialo umano è sempre lo stesso. Gli alunni in difficoltà vanno motivati o rimotivati, gli insuccessi scolastici vanno portarli a dei buoni risultati, la perdita di autostima ed atteggiamenti rinunciatari nei confronti della Scuola devono essere un punto prioritario di ogni docente, sia esso specializzato sul sostegno, sia esso curriculare. Ognuno deve dare il meglio di se stesso, partendo dalla propria esperienza professionale. Gli alunni ed in special modo, gli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento, gli alunni che necessitano di BES – Bisogni Educativi Speciali o con altre patologie, andranno trattati “con guanti bianchi” perché il loro avvenire è alquanto incerto ed insicuro. Il buon educatore dovrà alleviare il disagio, le difficoltà, i disturbi ed ottimizzare i bisogni che portano ad un rallentamento del programma nel soggetto affetto da patologie. Occorre fare di tutto affinché gli alunni abbiano lo stesso trattamento e la stessa «change» nella vita piena di ostacoli che a volte sono insormontabili. Un ringraziamento va all’associazione Assodolab che ha affrontato questi discorsi attraverso corsi di formazione e aggiornamento on-line e in presenza sia sui DSA che sui BES attraverso momenti di formazione in videoconferenza e a voi che seguite con attenzione questi bambini. Prof. Agostino Del Buono Presidente Nazionale Assodolab

DATA: 10/02/2011 - Autore Prof. Agostino Del Buono - Post 1501

COMMENTI - PAGINA 10

DATA 30/05/2011 16.41.20 - AUTORE ottaviah598x

Anch'io son giunta alla fine del corso. Non ero del tutto impreparata riguardo all'argomento perchè nel nostro istituto comprensivo ci sono delle insegnanti referenti che ci avevano proposto , alcuni anni fa, un aggiornamento sulla dislessia. Come istituto abbiamo deciso di effettuare uno screening per tutti i bambini di seconda elementare, utilizzando le prove MT. Siamo consapevoli che non è la soluzione, ma ciò ci permette di avere uno strumento per confrontare i vari risultati. Personalmente ho somministrato ai miei alunni di IV le prove MT di lettura e comprensione dalla prima e, nel corso degli anni, ho constatato che le strategie didattiche usate per i dislessici sono utili anche per quei bambini che fanno fatica a leggere, anche se nelle prove raggiungono la sufficienza. Rimango dell' idea, già espressa nel precedente commento, che manca ancora una sensibilizzazione dell'opinione pubblica riguardo al problema: si sente parlare,sì, di persone famose che hanno avuto problemi di questo tipo, ma non che nella scuola italiana sono all'ordine del giorno. Un' altra questione che merita di essere presa in considerazione è l' impegno, non indifferente, dei genitori che cercano a loro volta strategie, alternative, che studiano insieme ai loro figli e che li aiutano a diventare autonomi. Genitori e insegnanti consapevoli possono maturare nel bambino dislessico la capacità di poter superare le difficoltà intrinseche alla dislessia utilizzando alcuni strumenti a loro disposizione e ad avere una buona percezione di sè.

DATA 30/05/2011 23.13.33 - AUTORE alessandra I754y

Salve, sono un'insegnante al momento precaria a causa dei tagli, ma siccome mi piace insegnare mi dedico alle ripetizioni private. Infatti, è da alcuni mesi che seguo una ragazzina che frequenta le medie, e diciamo che doveva migliorare solo l'esposizione orale, ma mi sto rendendo conto, grazie anche al corso sui dsa appena concluso, che sembrano esserci in lei aspetti simili ai disturbi dell'apprendimento. Sto cercando infatti di mettere in atto alcune misure compensative, ma sono solo delle prove al momento. La ragazzina è intelligente e capace, e nonostante studi, non riesce ad avere un lessico molto piu ricco per l'età che ha, ne ad esprimersi in maniera spesso corretta, ecc. Allora mi chiedo perche certi insegnanti anzichè dire "leggi di più, impegnati maggiormente..."ecc, perche non si chiedono come mai un alunno bravo, capace, studioso, presenta certe difficoltà? perche non andare a fondo anzichè giudicare, e colpire l'autostima dei ragazzi? Sarebbe veramente necessario che tutti gli insegnanti, nessuno escluso, cercassimo di porci delle domande e di prepararci in maniera adeguata, per poter capire precocemente le debolezze e abilità dei nostri alunni.

DATA 30/05/2011 23.38.01 - AUTORE cristina-h910g

Anch’io ho terminato il corso e l’ho trovato interessante, perché vi ho riscontrato delle conferme rispetto ad alcune modalità di lavoro che cerco di applicare fin dalla classe prima per un insegnamento graduale della lettura e della scrittura. Spero di riuscire a frequentare anche i corsi di livello avanzato, perché credo fermamente nell’importanza dell’aggiornamento e vorrei conoscere in maniera più approfondita gli strumenti compensativi più moderni per far fronte alle difficoltà d’apprendimento. Purtroppo però le scuole e le famiglie oggi spesso vivono un momento economico difficile nel quale non sempre ci sono i fondi per gli investimenti didattici e, nella mia realtà scolastica, per quanto riguarda i DSA, non viene più assegnato l’insegnante di sostegno neanche nei casi più gravi. Capisco che un disturbo specifico d’apprendimento non debba essere considerato un handicap, ma solo un funzionamento neurologico diverso che può essere adeguatamente compensato con le modalità e gli strumenti adatti, ma mi chiedo se un insegnante prevalente (ormai quasi unico) di una classe di venticinque/ventotto alunni con il 40% di extracomunitari che non hanno padronanza della lingua italiana possa occuparsi da solo di tutte le esigenze della classe compresi eventuali DSA. Non finirà per trascurare qualcosa?

DATA 31/05/2011 2.36.31 - AUTORE Simone_a794j

Strumenti compensativi e di sostegno per alunni dislessici devono procedere secondo adeguate metodologie scritte e orali. Utile in tal senso risulta essere, per ciò che concerne il lavoro orale, un adeguato accompagnamento alla lettura, anche con il supporto di materiali multimediali, oppure con testi dalle ampie spaziature e supportati da immagini, in modo tale da facilitare la comprensione delle singole parole. Altrettanto importante è la spiegazione a voce di un argomento, per poi procedere nella lettura dello stesso, soffermandosi a lungo sul lavoro sillabico e porre domande flash per constatare l’apprendimento e l’assorbimento dei concetti letti. Per il lavoro scritto, risulta molto efficace l’analisi e la ripresa approfondita del lavoro sillabico, come già scritto, ed in misura maggiore il lavoro sulla fonetica. Infatti uno dei più diffusi disturbi che caratterizzano le persone dislessiche è proprio il mancato riconoscimento delle coppie minime consonantiche che si differenziano per un solo fonema, soprattutto con le consonanti che presentano differenze solamente per sonorità (esempio: foglio/voglio – pelle/belle). In tal senso l’intervento dovrà essere mirato ad un’attenta distinzione di tali fonemi, sottoponendo all’alunno dislessico parole (rispettando sempre le ampie spaziature e con il supporto di immagini) che presentino casi di coppie minime e, naturalmente, lavorando sui singoli grafemi. Inoltre è necessario lavorare su suoni omofoni, digrammi, trigrammi; riprendere ed analizzare con molta attenzione sillabe e suoni.

DATA 31/05/2011 15.34.45 - AUTORE Marina_D969Q

Il Corso che ho seguito sui Disturbi Specifici di Apprendimento, più comunemente chiamato come DSA, mi ha fatto riflettere sui nostri principali compiti: instaurare con loro, in ambito scolastico, una relazione forte e puntuale, orientata a un preciso obiettivo che aumenti la loro fiducia e autonomia. Un monitoraggio continuo con parole, azioni, pensieri, emozioni rende possibile intervenire efficacemente e fattivamente sulle situazioni che inevitabilmente si evolvono. Solo una conoscenza approfondita di chi abbia davanti ci consente di valutare il suo livello di gravità e intervenire in maniera opportuna. Solo con un monitoraggio continuo si riesce a capire le sue ansie e le sue paure di non riuscire. Devono imparare a osare, a non darsi per vinti prima ancora di combattere. Noi insegnanti dobbiamo lavorare sulle emozioni per dare loro un significato allo studio, per ritrovarsi nella scuola sia a proposito degli apprendimenti sia riguardo alla crescita personale.

DATA 31/05/2011 18.21.10 - AUTORE Maria Assunta D643N

Siamo giunti alla fine del corso e come altre colleghe l'ho trovato molto interessante e di valido supporto teorico e pratico riscontrando conferme rispetto a modalità da me applicate. Il tutto parte da un' ottima integrazione nel contesto scolastico e nella vita sociale, assicurare a tutti i ragazzi nnormodotati e non di sviluppare le proprie potenzialità e rimuovere dove è possibile qualsiasi ostacolo che si frapponga a tale sviluppo. Spiego qui di seguito queste mie considerazioni in merito all'argomento. Il riferimento teorico più aggiornato e appropriato per l'integrazione scolastica dei minori portatori di handicap anche se suscettibile di ulteriori miglioramenti, rimane la "Legge Quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate" (L. 5 febbraio 1992 n° 104). Il punto focale della legge è quello di riconoscere il portatore di handicap come PERSONA, che ha quindi diritto non solo ad un inserimento nella società umana ma alla completa INTEGRAZIONE. L'evoluzione terminologica è di importanza estrema e si evidenzia in particolare nell'ambito scolastico. Da quando la scuola si accontentava di un'educazione differenziale al momento in cui (L. 517 del 1977) si incominciò a parlare di inserimento, il salto fu grande. Il concetto di inserimento ha però generato notevoli confusioni: perchè non bastava inserire il portatore di handicap indiscriminatamente in una classe per ottenere il risultato sperato, era un'utopia. Il semplice inserimento, non garantiva certo al portatore di handicap una buona educazione e un apprendimento mirato. Il concetto di INTEGRAZIONE è assicurare a tutti i ragazzi, cosiddetti normodotati e portatori di handicap, la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e la rimozione di qualsiasi ostacolo si frapponga a tale sviluppo. Ma cosa vuole dire “diversità”? Quale sia il vero senso di questa parola lo scopri il giorno in cui avvicinandoti ad un normalissimo servizio, che esprime il diritto conquistato o da sempre riconosciuto alle persone, questo diritto ti viene negato in modo più o meno diretto. La diversità la scopri nel momento in cui tu non puoi essere chiaramente te stessa, ma sei costretta a nasconderti per poter continuare a vivere usufruendo degli elementari diritti della persona, per conservare il tuo lavoro, per poter camminare per strada senza essere additata od insultata, per avere un affitto senza maggiorazioni assurde o anche per non essere sfrattata. La diversità ti viene chiara nel suo significato quando la società nel suo complesso, conoscendoti per quella che effettivamente sei, ti esclude, ti toglie il saluto, ti evita, ti isola. Ecco quando comprendi veramente cosa significa la parola “diversità”. La diversità non è qualcosa di “mentale” e di “ideologico”, la diversità è una condizione di vita che non riesce a conformarsi ad un concetto di “normalità”, dove per alcune persone questo è praticamente impossibile, e per altre è possibile solo a costo di grandissime sofferenze e negazioni. Dobbiamo, però, fare un chiaro distinguo nell'ambito di quello che è l'atteggiamento sociale nei confronti della diversità, poiché non tutte le diversità hanno la stessa identica reazione sociale e subiscono lo stesso stigma, esclusione ed emarginazione. Tutte le diversità subiscono una negazione dei diritti, ma in modo diverso, poiché la società ha atteggiamenti diversi in relazione al tipo di diversità dalla “norma”. Diverse sono le donne, le persone disabili, le persone di diverso colore dalla maggioranza, le persone anziane, le persone malate, come diversa è la persona che non ha raggiunto la “maggiore” età, così come diverse sono le persone omosessuali, bisessuali, quelle transgender e quelle transessuali. Ora, se ci soffermiamo un attimo e riflettiamo, ci rendiamo conto di quanto il concetto di “normalità” o di “norma” sia dettato esclusivamente da un fattore culturale, il quale ha eletto come “norma” umana il “maschio bianco adulto sano”, e per tanto rientra nella “normalità” tutto ciò che in un qualche modo corrisponde o si avvicina a corrispondere a quanto questa “norma” implica culturalmente. A tutte le persone che non corrispondono a questa norma è riconosciuto in modo inequivocabile uno stato di diversità; alla donna, alla persona disabile, alla persona con colore diverso della pelle, alla persona anziana o malata o giovane viene riconosciuto che la loro diversità dalla “norma” è indipendente dalla loro volontà, e per tanto – anche se spesso solo sulla carta – a loro vengono riconosciuti dei diritti come le cure sanitarie, il lavoro, una casa, i documenti che indichino la loro identità, potersi sposare o quanto meno vivere apertamente la loro affettività, il poter essere incarcerati nel rispetto del loro genere o della loro condizione. La cultura dell’ inclusione, dell’accoglienza non è una cultura dominante; dominante è la cultura narcisistica che guarda non tanto all’essere ma all’ avere. La coesistenza di scenari così profondamente diversificati e contrastanti impegna quindi la scuola a svolgere un ruolo di attiva presenza, in collaborazione ed in armonia con la famiglia, per la piena affermazione del significato e del valore dell'infanzia secondo principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Il momento dell’accoglienza e del primo inserimento nella scuola risulta cruciale ai fini del processo di integrazione perché è in questa fase che si pongono le basi per un percorso scolastico positivo. In misura maggiore esso si colloca all’inizio dell’anno scolastico, ma, per una parte degli alunni stranieri (circa un quinto delle presenze), l’inserimento nella scuola italiana avviene in corso d’anno. Nella fase dell’accoglienza, molti sono i fattori che entrano in gioco e che richiedono di essere considerati con attenzione. Essi sono, tra l’altro, di tipo: - conoscitivo: si deve ricostruire la storia personale, scolastica e linguistica del minore straniero, attraverso i documenti presentati, il colloquio con i genitori, la collaborazione di mediatori linguistici-culturali ecc.; - amministrativo: sulla base degli elementi di conoscenza raccolti durante i colloqui iniziali, i momenti di osservazione dell’alunno neo-arrivato, le indicazioni della normativa, si procede a definire la classe e la sezione di inserimento più adeguata; - relazionale: nella fase iniziale si stabilisce un patto educativo con la famiglia straniera, considerata come partner educativo a tutti gli effetti e si mettono le basi per una collaborazione positiva tra i due spazi educativi. Al tempo stesso, si inaugura, nel gruppo-classe dell’alunno neo-arrivato, una dinamica relazionale tra i pari, che va seguita e accompagnata con cura; - pedagogico-didattico: vengono rilevati durante i primi giorni dell’inserimento i bisogni linguistici e di apprendimento, in generale, e anche le competenze e i saperi già acquisiti e, sulla base di questi dati, si elabora un piano di lavoro individualizzato; - organizzativo: la scuola predispone i dispositivi più efficaci per rispondere ai bisogni linguistici e di apprendimento degli alunni neo-inseriti: modalità e tempi dedicati all’apprendimento dell’italiano seconda lingua; individuazione delle risorse interne ed esterne alla scuola; attivazione dei dispostivi di aiuto allo studio anche in tempo extrascolastico. Particolare attenzione deve essere data all’inserimento dei minori neo-arrivati ultraquattordicenni: per loro, la fase dell’accoglienza viene di fatto a coincidere con il momento cruciale dell’orientamento e con la scelta del percorso scolastico. La domanda di educazione può essere soddisfatta quando la famiglia, la scuola e le altre realtà formative cooperano costruttivamente fra loro in un rapporto di integrazione e di continuità. È quindi utile avere presenti tutte le possibili interazioni esistenti fra i vari contesti educativi. La famiglia rappresenta quindi il contesto primario nel quale il bambino, apprendendo ad ordinare e a distinguere le esperienze quotidiane e ad attribuire loro valore e significato, acquisisce gradualmente i criteri per interpretare la realtà, struttura categorie logiche ed affettive, si orienta nella valutazione dei rapporti umani e viene avviato alla conquista e alla condivisione delle regole e dei modelli delle relazioni interpersonali attraverso l'interiorizzazione delle norme di comportamento e la loro progressiva strutturazione in un sistema di valori personali e sociali. Inoltre, sulla base delle esperienze di comunicazione e di relazione, costruisce le sue capacità linguistiche fino allo sviluppo dei processi simbolici e delle abilità espressive. La scuola poi, come la famiglia, si colloca nel quadro di tutte quelle situazioni ed esperienze che il bambino vive in maniera non ancora formalizzata (costumi, tradizioni, consumi, attività artistiche, sportive e di tempo libero, insediamenti urbani e rurali, strutture edilizie e così via), ma che per lui rivestono comunque grande importanza. La scuola accoglie ed interpreta la complessità dell'esperienza vitale dei bambini e ne tiene conto nella sua progettualità educativa in modo da svolgere una funzione di filtro, arricchimento e valorizzazione nei riguardi delle esperienze extrascolastiche, allo scopo di sostenere il sorgere e lo sviluppo delle capacità di critica, di autonomia del comportamento e di difesa dai condizionamenti. La distinzione dei compiti, sulla base del comune riconoscimento del diritto del bambino all'educazione, è la condizione necessaria per stabilire produttivi rapporti fra le diverse agenzie educative. Vanno in ogni modo evitate le situazioni di ambiguità, prevaricazione ed indebita supplenza, ricercando le convergenze che nascono dalla condivisione delle finalità, dalla cooperazione solidale e dalla partecipazione attiva e finalizzata. A questo scopo la scuola, avvalendosi di tutti i mezzi previsti e possibili (colloqui individuali, assemblee, riunioni di sezione, consigli di intersezione e di circolo, comitati e gruppi di lavoro), crea un clima di dialogo, di confronto e di aiuto reciproco, coinvolge i genitori nella progettazione educativa, valorizza e potenzia la partecipazione responsabile di tutte le figure e le istituzioni interessate, individuando modalità di concreta attuazione finalizzata ad un raccordo funzionale degli interventi. L'ambientamento e l'accoglienza rappresentano un punto privilegiato di incontro tra la scuola e le famiglie, forniscono opportunità di conoscenza e collaborazione, che possono venire avviate tramite contatti ed incontri già prima della frequenza dei piccoli. È sicuramente importante la capacità dell'insegnante e della scuola nel suo insieme di accogliere le bambine e i bambini in modo personalizzato e di farsi carico delle emozioni, loro e dei loro familiari, nei delicati momenti del primo distacco, dell'ambientazione quotidiana e della costruzione di nuove relazioni con i compagni e con altri adulti. Le situazioni connesse a relazioni familiari difficili o a condizioni di precarietà richiedono una cura specifica, che non va comunque disgiunta dall'attenzione a porre sempre in atto le condizioni per una efficace collaborazione. Una scuola che accoglie in maniera competente deve quindi essere attrezzata a tale scopo e deve poter contare su: una conoscenza aggiornata della normativa in materia di inserimento scolastico; la disponibilità di materiali informativi e di modulistica plurilingui; l’attivazione di risorse interne (ad esempio un gruppo di lavoro sull’accoglienza formato da: dirigente, docenti e personale amministrativo); la definizione di procedure di accoglienza condivise (ad esempio, il “protocollo di accoglienza”). L’acquisizione e l’apprendimento dell’italiano rappresenta una componente essenziale del processo di integrazione: costituiscono la condizione di base per capire ed essere capiti, per partecipare e sentirsi parte della comunità, scolastica e non. L’azione complessiva si articola in due tipi di attività, organizzativa la prima, glottodidattica la seconda. Elaborare materiali e strumenti (trasmissioni televisive, modelli di test di determinazione dei livelli d’accesso, ecc.) ed erogare risorse da destinare sia alla pubblicazione e diffusione di materiali di riferimento per gli insegnanti sia all’acquisto di materiali di Ital2 per le scuole e gli apprendenti stranieri. La fase “glottodidattica” prende le mosse contemporaneamente alla prima ma produce risultati in un momento successivo; essa riguarda: la definizione di un modello di competenza comunicativa di italiano di base, l’individuazione dei problemi dell’italiano per lo studio, in modo da offrire ai docenti un quadro comune di riferimento, la formazione di docenti di riferimento per le singole scuole e la sensibilizzazione di tutti i docenti sui problemi della facilitazione nella comprensione dell’italiano.Viene unanimemente riconosciuta come centrale la relazione con le famiglie immigrate, con particolare attenzione alla scelta consapevole della scuola nella quale inserire i figli, il coinvolgimento della famiglia nel momento dell’accoglienza degli alunni, che evidentemente va di pari passo con quella della famiglia nel suo insieme. È necessario, da parte della scuola, un ascolto capace di comprendere la specifica condizione in cui la famiglia si trova, quasi sempre contrassegnata da delicati percorsi di destrutturazione-ristrutturazione culturale, con frequenti crisi nelle relazioni intergenerazionali. Accogliere la famiglia e accompagnarla intelligentemente nel difficile “viaggio” cui è sottoposta, aiutandola nella graduale dinamica integrazione nel nuovo contesto, è indubbiamente uno dei compiti più complessi della scuola aperta all’intercultura, la partecipazione attiva e corresponsabile delle famiglie immigrate alle iniziative e alle attività della scuola, alla conoscenza e condivisione del progetto pedagogico, ad un’alleanza pedagogica che valorizzi le specificità educative. I mediatori linguistico-culturali rappresentano una risorsa importante per tutte queste forme di relazione. E quale deve essere il ruolo dei docenti e del personale non docente? Una rinnovata visione della formazione degli insegnanti come “sensibili alle culture” mira ad una costruzione di tipo riflessivo della personalità dei docenti, per renderli capaci di apertura alla diversità ed interpretazione del bagaglio culturale degli alunni/studenti nei loro aspetti singolari e soggettivi. Questi elementi di sviluppo delle competenze degli insegnanti segnano la tendenza verso il superamento di forme prevalentemente informative-culturali o estetiche della formazione, per rivolgersi ad intenzionalità di formazione critica, in grado di sollecitare il ripensamento del ruolo insegnante in quanto tale. In tale prospettiva, di tipo esperienziale, la formazione interculturale si configura come una prospettiva di innovazione dell’insegnamento complessivamente inteso e, di conseguenza, del ruolo docente. Il contesto della diversità culturale obbliga l’insegnante a uscire dai canoni della trasmissione lineare per dialogare con particolari esigenze. Tuttavia, ciò non significa formare i docenti a rispondere a bisogni “speciali”, bensì, al contrario, abituarsi a leggere l’intero contesto scolastico sotto il segno della differenza. A questo aspetto va però aggiunta la competenza di gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimilazione. L’insieme costituito da un impianto teorico forte e dall’esperienza critica deve prevedere la capacità, da parte dell’insegnante, di affrontare i dilemmi dell’incontro (e scontro) di valori diversi. Possono, in questo senso, essere messi in grado di collocare la loro posizione tra un astratto universalismo, che rilegge la diversità sotto il segno dell’omogeneità, e un radicale relativismo che accentua le differenze. La formazione più accreditata fornisce gli insegnanti di strumenti metodologici per inserire la prospettiva interculturale nelle discipline scolastiche (storico-geografiche, letterarie, artistiche, scientifiche ecc.). Infine, non può mancare l’immersione e la scoperta, per quanto parziale, di almeno un universo culturale degli immigrati, per confrontarsi con una diversità sperimentata e non solo immaginata. Nella scuola interculturale è di particolare importanza anche la formazione degli operatori scolastici amministrativi, tecnici ed ausiliari. Essi sono spesso i primi interfaccia dell’istituzione, direttamente coinvolti in una organizzazione che affronta le esigenze complesse della diversità. Anche per loro le modalità della formazione dovrebbero caratterizzarsi per un approfondimento di tipo autoriflessivo (attitudini personali nei confronti della diversità, riconsiderazione critica delle esperienze pregresse, confronti di pratiche), ed esperienziale (valorizzazione delle sensibilità sviluppate nei confronti delle diversità, vigilanza nei momenti comuni della scuola, gestione operativa dell’accoglienza). La società italiana è attualmente caratterizzata da ampie, profonde e contrastanti trasformazioni che, rifrangendosi in maniera differenziata nei diversi contesti storici, sociali e culturali del Paese. La pluralità dei modelli di comportamento e degli orientamenti di valore, la presenza di nuove ed incidenti forme di informazione e la proliferazione dei luoghi di produzione e di consumo rendono difficili il controllo, la gestione e l'equa distribuzione delle risorse nel tessuto sociale. L'espandersi delle reti e dei linguaggi massmediali, ad esempio, pur rischiando di produrre effetti di conformismo e di indurre abitudini di ricettività puramente passiva, rappresenta non di meno una importante fonte di informazione e di stimolazione culturale. L' irruzione e la diffusione dei mezzi telematici ed informatici introducono senza dubbio opportunità cognitive di grande rilevanza, anche se possono dar luogo a condizioni di isolamento connesse alla loro fruizione e alla prevalenza dei linguaggi formalizzati e digitali sulle altre forme di relazione e di espressività. È anche in tale insieme di riferimenti che si definiscono il compito e la funzione della scuola italiana nello sviluppo della nostra comunità nazionale. GRAZIE A TUTTI Il riferimento teorico più aggiornato e appropriato per l'integrazione scolastica dei minori portatori di handicap anche se suscettibile di ulteriori miglioramenti, rimane la "Legge Quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate" (L. 5 febbraio 1992 n° 104). Il punto focale della legge è quello di riconoscere il portatore di handicap come PERSONA, che ha quindi diritto non solo ad un inserimento nella società umana ma alla completa INTEGRAZIONE. L'evoluzione terminologica è di importanza estrema e si evidenzia in particolare nell'ambito scolastico. Da quando la scuola si accontentava di un'educazione differenziale al momento in cui (L. 517 del 1977) si incominciò a parlare di inserimento, il salto fu grande. Il concetto di inserimento ha però generato notevoli confusioni: perchè non bastava inserire il portatore di handicap indiscriminatamente in una classe per ottenere il risultato sperato, era un'utopia. Il semplice inserimento, non garantiva certo al portatore di handicap una buona educazione e un apprendimento mirato. Il concetto di INTEGRAZIONE è assicurare a tutti i ragazzi, cosiddetti normodotati e portatori di handicap, la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e la rimozione di qualsiasi ostacolo si frapponga a tale sviluppo. Ma cosa vuole dire “diversità”? Quale sia il vero senso di questa parola lo scopri il giorno in cui avvicinandoti ad un normalissimo servizio, che esprime il diritto conquistato o da sempre riconosciuto alle persone, questo diritto ti viene negato in modo più o meno diretto. La diversità la scopri nel momento in cui tu non puoi essere chiaramente te stessa, ma sei costretta a nasconderti per poter continuare a vivere usufruendo degli elementari diritti della persona, per conservare il tuo lavoro, per poter camminare per strada senza essere additata od insultata, per avere un affitto senza maggiorazioni assurde o anche per non essere sfrattata. La diversità ti viene chiara nel suo significato quando la società nel suo complesso, conoscendoti per quella che effettivamente sei, ti esclude, ti toglie il saluto, ti evita, ti isola. Ecco quando comprendi veramente cosa significa la parola “diversità”. La diversità non è qualcosa di “mentale” e di “ideologico”, la diversità è una condizione di vita che non riesce a conformarsi ad un concetto di “normalità”, dove per alcune persone questo è praticamente impossibile, e per altre è possibile solo a costo di grandissime sofferenze e negazioni. Dobbiamo, però, fare un chiaro distinguo nell'ambito di quello che è l'atteggiamento sociale nei confronti della diversità, poiché non tutte le diversità hanno la stessa identica reazione sociale e subiscono lo stesso stigma, esclusione ed emarginazione. Tutte le diversità subiscono una negazione dei diritti, ma in modo diverso, poiché la società ha atteggiamenti diversi in relazione al tipo di diversità dalla “norma”. Diverse sono le donne, le persone disabili, le persone di diverso colore dalla maggioranza, le persone anziane, le persone malate, come diversa è la persona che non ha raggiunto la “maggiore” età, così come diverse sono le persone omosessuali, bisessuali, quelle transgender e quelle transessuali. Ora, se ci soffermiamo un attimo e riflettiamo, ci rendiamo conto di quanto il concetto di “normalità” o di “norma” sia dettato esclusivamente da un fattore culturale, il quale ha eletto come “norma” umana il “maschio bianco adulto sano”, e per tanto rientra nella “normalità” tutto ciò che in un qualche modo corrisponde o si avvicina a corrispondere a quanto questa “norma” implica culturalmente. A tutte le persone che non corrispondono a questa norma è riconosciuto in modo inequivocabile uno stato di diversità; alla donna, alla persona disabile, alla persona con colore diverso della pelle, alla persona anziana o malata o giovane viene riconosciuto che la loro diversità dalla “norma” è indipendente dalla loro volontà, e per tanto – anche se spesso solo sulla carta – a loro vengono riconosciuti dei diritti come le cure sanitarie, il lavoro, una casa, i documenti che indichino la loro identità, potersi sposare o quanto meno vivere apertamente la loro affettività, il poter essere incarcerati nel rispetto del loro genere o della loro condizione. La cultura dell’ inclusione, dell’accoglienza non è una cultura dominante; dominante è la cultura narcisistica che guarda non tanto all’essere ma all’ avere. La coesistenza di scenari così profondamente diversificati e contrastanti impegna quindi la scuola a svolgere un ruolo di attiva presenza, in collaborazione ed in armonia con la famiglia, per la piena affermazione del significato e del valore dell'infanzia secondo principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Il momento dell’accoglienza e del primo inserimento nella scuola risulta cruciale ai fini del processo di integrazione perché è in questa fase che si pongono le basi per un percorso scolastico positivo. In misura maggiore esso si colloca all’inizio dell’anno scolastico, ma, per una parte degli alunni stranieri (circa un quinto delle presenze), l’inserimento nella scuola italiana avviene in corso d’anno. Nella fase dell’accoglienza, molti sono i fattori che entrano in gioco e che richiedono di essere considerati con attenzione. Essi sono, tra l’altro, di tipo: - conoscitivo: si deve ricostruire la storia personale, scolastica e linguistica del minore straniero, attraverso i documenti presentati, il colloquio con i genitori, la collaborazione di mediatori linguistici-culturali ecc.; - amministrativo: sulla base degli elementi di conoscenza raccolti durante i colloqui iniziali, i momenti di osservazione dell’alunno neo-arrivato, le indicazioni della normativa, si procede a definire la classe e la sezione di inserimento più adeguata; - relazionale: nella fase iniziale si stabilisce un patto educativo con la famiglia straniera, considerata come partner educativo a tutti gli effetti e si mettono le basi per una collaborazione positiva tra i due spazi educativi. Al tempo stesso, si inaugura, nel gruppo-classe dell’alunno neo-arrivato, una dinamica relazionale tra i pari, che va seguita e accompagnata con cura; - pedagogico-didattico: vengono rilevati durante i primi giorni dell’inserimento i bisogni linguistici e di apprendimento, in generale, e anche le competenze e i saperi già acquisiti e, sulla base di questi dati, si elabora un piano di lavoro individualizzato; - organizzativo: la scuola predispone i dispositivi più efficaci per rispondere ai bisogni linguistici e di apprendimento degli alunni neo-inseriti: modalità e tempi dedicati all’apprendimento dell’italiano seconda lingua; individuazione delle risorse interne ed esterne alla scuola; attivazione dei dispostivi di aiuto allo studio anche in tempo extrascolastico. Particolare attenzione deve essere data all’inserimento dei minori neo-arrivati ultraquattordicenni: per loro, la fase dell’accoglienza viene di fatto a coincidere con il momento cruciale dell’orientamento e con la scelta del percorso scolastico. La domanda di educazione può essere soddisfatta quando la famiglia, la scuola e le altre realtà formative cooperano costruttivamente fra loro in un rapporto di integrazione e di continuità. È quindi utile avere presenti tutte le possibili interazioni esistenti fra i vari contesti educativi. La famiglia rappresenta quindi il contesto primario nel quale il bambino, apprendendo ad ordinare e a distinguere le esperienze quotidiane e ad attribuire loro valore e significato, acquisisce gradualmente i criteri per interpretare la realtà, struttura categorie logiche ed affettive, si orienta nella valutazione dei rapporti umani e viene avviato alla conquista e alla condivisione delle regole e dei modelli delle relazioni interpersonali attraverso l'interiorizzazione delle norme di comportamento e la loro progressiva strutturazione in un sistema di valori personali e sociali. Inoltre, sulla base delle esperienze di comunicazione e di relazione, costruisce le sue capacità linguistiche fino allo sviluppo dei processi simbolici e delle abilità espressive. La scuola poi, come la famiglia, si colloca nel quadro di tutte quelle situazioni ed esperienze che il bambino vive in maniera non ancora formalizzata (costumi, tradizioni, consumi, attività artistiche, sportive e di tempo libero, insediamenti urbani e rurali, strutture edilizie e così via), ma che per lui rivestono comunque grande importanza. La scuola accoglie ed interpreta la complessità dell'esperienza vitale dei bambini e ne tiene conto nella sua progettualità educativa in modo da svolgere una funzione di filtro, arricchimento e valorizzazione nei riguardi delle esperienze extrascolastiche, allo scopo di sostenere il sorgere e lo sviluppo delle capacità di critica, di autonomia del comportamento e di difesa dai condizionamenti. La distinzione dei compiti, sulla base del comune riconoscimento del diritto del bambino all'educazione, è la condizione necessaria per stabilire produttivi rapporti fra le diverse agenzie educative. Vanno in ogni modo evitate le situazioni di ambiguità, prevaricazione ed indebita supplenza, ricercando le convergenze che nascono dalla condivisione delle finalità, dalla cooperazione solidale e dalla partecipazione attiva e finalizzata. A questo scopo la scuola, avvalendosi di tutti i mezzi previsti e possibili (colloqui individuali, assemblee, riunioni di sezione, consigli di intersezione e di circolo, comitati e gruppi di lavoro), crea un clima di dialogo, di confronto e di aiuto reciproco, coinvolge i genitori nella progettazione educativa, valorizza e potenzia la partecipazione responsabile di tutte le figure e le istituzioni interessate, individuando modalità di concreta attuazione finalizzata ad un raccordo funzionale degli interventi. L'ambientamento e l'accoglienza rappresentano un punto privilegiato di incontro tra la scuola e le famiglie, forniscono opportunità di conoscenza e collaborazione, che possono venire avviate tramite contatti ed incontri già prima della frequenza dei piccoli. È sicuramente importante la capacità dell'insegnante e della scuola nel suo insieme di accogliere le bambine e i bambini in modo personalizzato e di farsi carico delle emozioni, loro e dei loro familiari, nei delicati momenti del primo distacco, dell'ambientazione quotidiana e della costruzione di nuove relazioni con i compagni e con altri adulti. Le situazioni connesse a relazioni familiari difficili o a condizioni di precarietà richiedono una cura specifica, che non va comunque disgiunta dall'attenzione a porre sempre in atto le condizioni per una efficace collaborazione. Una scuola che accoglie in maniera competente deve quindi essere attrezzata a tale scopo e deve poter contare su: una conoscenza aggiornata della normativa in materia di inserimento scolastico; la disponibilità di materiali informativi e di modulistica plurilingui; l’attivazione di risorse interne (ad esempio un gruppo di lavoro sull’accoglienza formato da: dirigente, docenti e personale amministrativo); la definizione di procedure di accoglienza condivise (ad esempio, il “protocollo di accoglienza”). L’acquisizione e l’apprendimento dell’italiano rappresenta una componente essenziale del processo di integrazione: costituiscono la condizione di base per capire ed essere capiti, per partecipare e sentirsi parte della comunità, scolastica e non. L’azione complessiva si articola in due tipi di attività, organizzativa la prima, glottodidattica la seconda. Elaborare materiali e strumenti (trasmissioni televisive, modelli di test di determinazione dei livelli d’accesso, ecc.) ed erogare risorse da destinare sia alla pubblicazione e diffusione di materiali di riferimento per gli insegnanti sia all’acquisto di materiali di Ital2 per le scuole e gli apprendenti stranieri. La fase “glottodidattica” prende le mosse contemporaneamente alla prima ma produce risultati in un momento successivo; essa riguarda: la definizione di un modello di competenza comunicativa di italiano di base, l’individuazione dei problemi dell’italiano per lo studio, in modo da offrire ai docenti un quadro comune di riferimento, la formazione di docenti di riferimento per le singole scuole e la sensibilizzazione di tutti i docenti sui problemi della facilitazione nella comprensione dell’italiano.Viene unanimemente riconosciuta come centrale la relazione con le famiglie immigrate, con particolare attenzione alla scelta consapevole della scuola nella quale inserire i figli, il coinvolgimento della famiglia nel momento dell’accoglienza degli alunni, che evidentemente va di pari passo con quella della famiglia nel suo insieme. È necessario, da parte della scuola, un ascolto capace di comprendere la specifica condizione in cui la famiglia si trova, quasi sempre contrassegnata da delicati percorsi di destrutturazione-ristrutturazione culturale, con frequenti crisi nelle relazioni intergenerazionali. Accogliere la famiglia e accompagnarla intelligentemente nel difficile “viaggio” cui è sottoposta, aiutandola nella graduale dinamica integrazione nel nuovo contesto, è indubbiamente uno dei compiti più complessi della scuola aperta all’intercultura, la partecipazione attiva e corresponsabile delle famiglie immigrate alle iniziative e alle attività della scuola, alla conoscenza e condivisione del progetto pedagogico, ad un’alleanza pedagogica che valorizzi le specificità educative. I mediatori linguistico-culturali rappresentano una risorsa importante per tutte queste forme di relazione. E quale deve essere il ruolo dei docenti e del personale non docente? Una rinnovata visione della formazione degli insegnanti come “sensibili alle culture” mira ad una costruzione di tipo riflessivo della personalità dei docenti, per renderli capaci di apertura alla diversità ed interpretazione del bagaglio culturale degli alunni/studenti nei loro aspetti singolari e soggettivi. Questi elementi di sviluppo delle competenze degli insegnanti segnano la tendenza verso il superamento di forme prevalentemente informative-culturali o estetiche della formazione, per rivolgersi ad intenzionalità di formazione critica, in grado di sollecitare il ripensamento del ruolo insegnante in quanto tale. In tale prospettiva, di tipo esperienziale, la formazione interculturale si configura come una prospettiva di innovazione dell’insegnamento complessivamente inteso e, di conseguenza, del ruolo docente. Il contesto della diversità culturale obbliga l’insegnante a uscire dai canoni della trasmissione lineare per dialogare con particolari esigenze. Tuttavia, ciò non significa formare i docenti a rispondere a bisogni “speciali”, bensì, al contrario, abituarsi a leggere l’intero contesto scolastico sotto il segno della differenza. A questo aspetto va però aggiunta la competenza di gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimilazione. L’insieme costituito da un impianto teorico forte e dall’esperienza critica deve prevedere la capacità, da parte dell’insegnante, di affrontare i dilemmi dell’incontro (e scontro) di valori diversi. Possono, in questo senso, essere messi in grado di collocare la loro posizione tra un astratto universalismo, che rilegge la diversità sotto il segno dell’omogeneità, e un radicale relativismo che accentua le differenze. La formazione più accreditata fornisce gli insegnanti di strumenti metodologici per inserire la prospettiva interculturale nelle discipline scolastiche (storico-geografiche, letterarie, artistiche, scientifiche ecc.). Infine, non può mancare l’immersione e la scoperta, per quanto parziale, di almeno un universo culturale degli immigrati, per confrontarsi con una diversità sperimentata e non solo immaginata. Nella scuola interculturale è di particolare importanza anche la formazione degli operatori scolastici amministrativi, tecnici ed ausiliari. Essi sono spesso i primi interfaccia dell’istituzione, direttamente coinvolti in una organizzazione che affronta le esigenze complesse della diversità. Anche per loro le modalità della formazione dovrebbero caratterizzarsi per un approfondimento di tipo autoriflessivo (attitudini personali nei confronti della diversità, riconsiderazione critica delle esperienze pregresse, confronti di pratiche), ed esperienziale (valorizzazione delle sensibilità sviluppate nei confronti delle diversità, vigilanza nei momenti comuni della scuola, gestione operativa dell’accoglienza). La società italiana è attualmente caratterizzata da ampie, profonde e contrastanti trasformazioni che, rifrangendosi in maniera differenziata nei diversi contesti storici, sociali e culturali del Paese. La pluralità dei modelli di comportamento e degli orientamenti di valore, la presenza di nuove ed incidenti forme di informazione e la proliferazione dei luoghi di produzione e di consumo rendono difficili il controllo, la gestione e l'equa distribuzione delle risorse nel tessuto sociale. L'espandersi delle reti e dei linguaggi massmediali, ad esempio, pur rischiando di produrre effetti di conformismo e di indurre abitudini di ricettività puramente passiva, rappresenta non di meno una importante fonte di informazione e di stimolazione culturale. L' irruzione e la diffusione dei mezzi telematici ed informatici introducono senza dubbio opportunità cognitive di grande rilevanza, anche se possono dar luogo a condizioni di isolamento connesse alla loro fruizione e alla prevalenza dei linguaggi formalizzati e digitali sulle altre forme di relazione e di espressività. È anche in tale insieme di riferimenti che si definiscono il compito e la funzione della scuola italiana nello sviluppo della nostra comunità nazionale. FORTE MARY

DATA 31/05/2011 19.22.04 - AUTORE Maria Assunta D643N

Ringrazioo il prof. Ugo Avalle per i suoi preziosissimi appunti e video lezioni ed auguro un buon proseguo a tutti i colleghi…. Mary P.S. Nel mio ultimo intervento ho notato una sovrapposizione del testo dovuto ad un errore di trascrizione dello stesso…..capita !

DATA 31/05/2011 22.16.58 - AUTORE Rita_A794S

Dopo un anno di lavoro è il momento di tirare le somme. Si è fatto molto, ma ancora di più si poteva fare; per tutti gli alunni, ma in particolare sia per i bambini con difficoltà sia per i bambini che hanno un quid in più, spesso trascurati e costretti ad un livellamento, dato il nostro sistema scolastico. Si parla sempre di recupero e quasi mai, se non per rare volte e in alcune nicchie, di potenziamento. Nella classe in cui insegno è inserita una bambina con DSA. Le insegnanti, dopo aver elaborato un PEP, hanno messo in atto varie strategie. Per l'alunna, tutto ciò che è stato fatto, proposto e messo in atto ha messo in evidenza progressi, anche se minimi, sia dal punto di vista didattico sia dal punto di vista educativo e dell'autostima. Ogni giorno e ogni attività sono state progettate e proposte con il fine di rendere l'alunna più cosciente delle proprie possibilità, più partecipe in modo attivo e consapevole a tutte le esperienze di classe, per permetterle di trovare un suo ruolo e una sua dimensione in tutti gli aspetti della vita scolastica, per rafforzare la sua autostima. Quest'ultimo aspetto è stato il più importante per le insegnanti che, con l'aiuto e l'appoggio della famiglia, hanno insistito molto per ricreare nell'alunna il desidero e l'attenzione e concentrazione necessari a procedere in un percorso di apprendimento significativo che consenta di acquisire strategie e conoscenze utili. L'impegno degli insegnanti, la energia o l'impegno dell'alunna, la disponibilità e la collaborazione con la famiglia sono tutte componenti per proseguire in questo lavoro iniziato, con fatica e gran difficoltà. A supportare il lavoro delle insegnanti e dell'alunna, grazie alla collaborazione con una associazione presente sul territorio e con la biblioteca comunale, i bambini con dsa sono stati dotati di un nuovo e moderno lettore MP3 grazie al quale potranno ascoltare libri parlati a scelta tra un numero considerevole di volumi. Sembra anche possibile che, su indicazioni delle insegnanti e con un largo anticipo, sia possibile richiedere anche la versione parlata dei libri di testo scolastici. Questa è una opportunità che faciliterebbe lo studio rendendolo più veloce, immediato e più fruibile anche in modo autonomo, così da ridurre ancora di più la dipendenza da altri, soprattutto dai pari, per la lettura e la distanza e differenza con gli altri, che in alcune fasce di età è un forte disagio, che si somma alle altre difficoltà.

DATA 31/05/2011 23.47.23 - AUTORE SIMONA_F205C

Insegnare ai ragazzi affetti da DSA vuol dire mettersi in gioco. La componente affettivo-emozionale è importantissima, come ci ha ricordato il prof. Avalle nelle sue lezioni. Se manca questo trampolino di lancio tutti gli altri sforzi profusi difficilmente avranno il risultato sperato. Come insegnanti ci viene chiesto in primis di volere bene a coloro che ci vengono affidati, di accettarne le capacità e le difficoltà e di camminare insieme. Per prima cosa occorre quindi conoscere, documentarsi, aggiornarsi, solo poi viene l'actio. Ho apprezzato di buon grado gli interventi proposti nel corso sia per la chiarezza espositiva che per la validità dei contenuti, nei quali ho riscontrato utili indicazioni operative facilmente attuabili. Chiudo il mio intervento con una citazione di Reuven Feuerstein “Non accettarmi come sono”: se credessimo veramente che ci si può migliorare faremmo miracoli... sui ragazzi e su noi insegnanti!

DATA 04/06/2011 14.08.30 - AUTORE rosa_a522j

Ho avuto modo di mettere in pratica alcuni dei consigli e delle strategie apprese durante queste ore di lezione on-line, utili per accrescere le mie conoscenze in merito ai dsa. Mi sono resa conto che, tante volte, dietro quell'apparente svogliatezza e quella naturale apatia da parte degli alunni, si nascondono problemi legati non alla mancanza di volontà nello svolgere il compito assegnato, ma alla difficoltà di apprendere. Così, dovendo seguire una ragazzina (cui solo a marzo di quest'anno sono stati diagnosticati dsa), prossima agli esami di terza media, ho approntato delle mappe concettuali su diversi argomenti trattati durante l'anno scolastico. Facilitato il lavoro e snelliti i capitoli di storia o di geografia, semplificati gli argomenti di italiano e di scienze, mi ritrovo davanti una ragazza curiosa di conoscere e motivata a studiare per se stessa e non in vista dell'esame. Il suo stato di ansia e di frustrazione, la sua timidezza non sono scomparsi, però l'impegno è emerso. Quello che mi dispiace è che tanto poteva essere fatto sin da subito, sin dai primi anni della scuola primaria se qualcuno avesse consigliato alla mamma di seguire l'iter che ha seguito da gennaio a marzo di quest'anno.

DATA 05/06/2011 20.31.34 - AUTORE Prof. Ugo Avalle

Ho letto con interesse i vari interventi, sempre "ricchi" di stimoli. E' anche grazie ad essi che con Assodolab sto preparando i contenuti del corso intermedio ed avanzato. Assicuro tutti i partecipanti al forum che verrannno affrontati tutti gli aspetti dei DSA sia sotto il profilo pedagogico sia sotto quello metodologico-didattico corredato da numerose esemplificazioni operative. Ugo Avalle

DATA 06/06/2011 18.38.13 - AUTORE ELENAB157M

Giunta ormai al termine di questa mia prima esperienza di corso on line, purtroppo svolta nel momento peggiore dell'anno scolastico dove si accavallano impegni, riunioni e relazioni finali, posso dire che le riflessioni mosse dall'ascolto e dalla ricerca effettuata dopo le video lezioni mi hanno portata a cambiare un po' l'ottica di intervento nei confronti di quegli alunni ormai sempre più frequentemente presenti nelle nostre classi. Per inciso attraverso il forum ho scoperto l'esistenza di diagnosi di acalculia della quale non avevo mai sentito parlare. Per questo spero che il prossimo corso avanzato possa toccare anche questo e altri nuovi argomenti

DATA 06/06/2011 19.00.03 - AUTORE ELENAB157M

(per un semplice errore materiale il mio intervento è stato pubblicato prima di aver terminato di scrivere ciò che avevo intenzione di dire: spero di poter completare il mio intervento) Proprio per il fatto che questi ragazzi sono diagnosticati in numero sempre maggiore tanto da aver portato alla stesura di una legge ad hoc, sono convinta che la preparazione sempre più accurata dei docenti potrà individuare tanto più precocemente questi casi. Così con un tempestivo intervento, sarà consentito sia di poter mettere in atto non solo l'utilizzo di strumenti e strumentalità esportabili nei vari ordini di scuola, sia soprattutto agli alunni di maturare la consapevolezza di propri limiti che si possono aggirare con gli opportuni accorgimenti di carattere metodologico e didattico.

DATA 13/06/2011 16.05.20 - AUTORE elisabettaD976T

Da due anni seguo un bambino affetto da DSA. Sono sincera nel dire che inizialmente ho incontrato notevoli difficoltà, anche perchè ero alla prima esperienza nel campo del sostegno. Ulteriori difficoltà le ho incontrate a causa del comportamento ostile adottato dalle maestra di ruolo, ostilità no nei miei confronti ma nei confronti del bambino. E' importante premettere che il bambino in questione frequenta la 4^ elementare e che ha vissuto un'infanzia malto particolare. Piccolissimo si è ammalato di tumore al cervello. Non ha frequentato la scuola materna perchè costretto a sottoporsi a interventi e chemio. Oggi continua a fare innumerevoli controlli ma per fortuna sembre che sia tutto sotto controllo. L'anno scorso dopo vari esami è stato riconosciuto dislessico. Le sue difficoltà non vengono capite da molti insegnati che vedono nel suo essere assente o nello stancarsi molto facilmente un susseguirsi di scuse, di mezzi usati dal bambino per non fare i compiti. In questi casi è necessario creare dei curriculi in modo tale da facilitare l'apprendimento, l'autonomia e non va dimenticato il lavoro che bisogna fare affinchè il bambino aumenti la propria autostima. Da quando ho iniziato questo percorso di sostegno ho cercato di seguire quanti più corsi ho potuto con la speranza di riuscire da essere all'altezza nel supportare e a migliorare la vita di questo bambino. Sono sicura che trarrò innumerevoli perle di saggezza anche da questo corso...la motivazione è fortissima!

DATA 17/06/2011 13.27.32 - AUTORE Serena_F712C

Sono un’insegnante di sostegno di scuola primaria plurilaureata (in Scienze e Tecniche Psicologiche e Scienze della Formazione Primaria) e vorrei condividere con questo post, il mio pensiero. Nella scuola dove ho lavorato quest’anno ho potuto visionare un vademecum riguardante la dislessia stilato da alcune insegnanti (sia curricolari che di sostegno) durante l’anno scolastico precedente. Ritengo che sia un ottimo strumento per aiutare gli insegnanti a cogliere negli alunni alcuni segnali predittivi di tale disturbo ed accogliere realmente la loro“diversità”. Infatti, sono docenti che per primi devono essere in grado di individuare le difficoltà che incontrano i bambini con bisogni educativi speciali. Ma soprattutto ai docenti spetta il delicato compito di fornire, alle famiglie coinvolte, informazioni (su tale disturbo) riguardanti le diverse difficoltà a livello dell'apprendimento, a livello emotivo, ecc; i possibili trattamenti adottabili, indirizzandoli verso i centri specializzati per una appropriata valutazione diagnostica. Di conseguenza ritengo sia importante investire sulla formazione degli insegnanti sia essi curricolari che specializzati per fare in modo che conoscano ed adottino un metodo di insegnamento/apprendimento in cui possa trovare spazio una programmazione personalizzata che tenga conto dei tempi e degli stili di apprendimento di ciascuno con le proprie difficoltà al fine di favorire il benessere di tutti e del bambino affetto da questo disturbo in particolare. Tutto questo è imprescindibile da una efficace collaborazione tra scuola, famiglia e operatori sanitari.

DATA 17/06/2011 13.49.22 - AUTORE Pia_F712V

Sono una giovane insegnante di scuola primaria al quarto anno di servizio. Mi sono laureata nel 2007 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ma, nonostante le insistenze di compagni e docenti, ho volontariamente e fermamente rinunciato al conseguimento del titolo di specializzazione per il sostegno. Il motivo, lo dico con sincerità, era che non mi sentivo né motivata né all’altezza di insegnare a bambini problematici. Il caso, o -preferisco pensare- il destino, ha voluto che quest’anno mi venisse proposta una richiesta di servizio, che poi ho accettato, su un posto di sostegno per una bambina in gravissime condizioni di salute. Oggi, al termine di quest’anno scolastico, posso dire di aver modificato in profondità sia il mio pensiero che il mio approccio verso questi alunni. Sebbene già l’Università Cattolica mi avesse indirizzato verso lo sviluppo e l’affinamento di quelle componenti umane e valoriali dalle quali la missione dell’insegnante non può mai prescindere, lavorare a stretto contatto con la disabilità mi ha, nuovamente ed inaspettatamente, arricchita e sensibilizzata come essere umano prima che come insegnante. La scelta di iscrivermi a questo corso è nata proprio dall’acquisita consapevolezza di non possedere pienamente quel tassello di conoscenza sulle problematiche scolastiche (tra cui, appunto, i disturbi specifici di apprendimento), che soltanto l’abilitazione al sostegno mi avrebbe permesso di conseguire. C’è una domanda che mi pongo da qualche tempo, riguardo i DSA; parlando con colleghe “mature” mi viene quasi sempre riferito: <ai miei tempi non esistevano bambini con queste difficoltà>. Mi chiedo allora se i DSA siano davvero mali moderni (e perché? Forse perché, come dice sempre qualcuna di queste mie colleghe <i genitori di oggi hanno meno tempo per parlare con i figli, e dunque ne stimolano meno le capacità linguistiche in particolare, e cognitive in generale; inoltre i ragazzi di oggi sono soggetti a troppi stimoli, soprattutto tecnologici, così crescono tanto stressati e sovra-stimolati da andare in tilt>), oppure, se i disturbi di apprendimento sono da sempre esistiti ma nel passato gli alunni interessati venivano indifferentemente buttati nel calderone degli alunni difficili per i quali la scuola non prevedeva interventi tanto specifici e specializzati come quelli che si stanno portando avanti fra le mura scolastiche negli ultimi anni.

DATA 27/06/2011 10.17.41 - AUTORE Serena_F712C

Serena_F712C A conclusione del percorso formativo seguito on-line mi pongo e vi pongo alcune domande. Supponiamo che le insegnanti di una scuola X, nell’arco del biennio di scuola primaria, compiano una serie di osservazioni sistematiche e periodiche delle competenze di lettura-scrittura di ciascun alunno. Ipotizziamo sempre che queste stesse insegnanti, si accorgano che un bambino presenti uno o più segnali riconducibili ai disturbi d’apprendimento e che ciò venga comunicato ai genitori. Cosa dovrebbero fare le insegnanti nel tempo che trascorre tra l’invio al servizio e l’effettiva diagnosi? Nella provincia dove abito i tempi di attesa sono davvero lunghi e si rischia di aspettare molto tempo prima di avere in mano la certificazione opportuna. Al fine di non far subire al bambino continue frustrazioni causate dall’insuccesso scolastico, è lecito mettere in atto tutte quelle procedure dette misure dispensative e compensative che la scuola deve attuare di fronte ad un alunno con diagnosi di DSA per ridurre le difficoltà riscontrate? Oppure occorre continuare ad adottare una didattica tradizionale “come se niente fosse”? Sono consapevole che l’ambiente scolastico dovrebbe essere in grado di andare incontro alle esigenze e difficoltà di apprendimento del bambino aiutandolo nella ricerca delle strategie di compenso, puntando alla costruzione di un’immagine di sé positiva,non fallimentare, e adottando di conseguenza una didattica flessibile che sia idonea al superamento delle sue difficoltà d’apprendimento. Questa strategia può essere attuata senza l’opportuna certificazione? E cosa fare quando ci si trova di fronte a genitori che non vogliono riconoscere il problema e si rifiutano di inviare il loro bambino al centro nonostante gli sforzi compiuti dagli insegnanti in tal senso? Il punto della questione diventa questo: cosa fare se questo problema non viene identificato perché non viene effettuata la valutazione neuropsicologica? E’chiaro che le conseguenze possono risultare di una certa gravità. Se con il bambino dislessico adottiamo un metodo d’apprendimento tradizionale, egli, nella migliore delle ipotesi potrà riuscire ad ottenere risultati accettabili solo con un grande dispendio di energia e concentrazione,ma è giusto tutto ciò? Dove finisce la responsabilità degli insegnanti?

DATA 27/06/2011 16.57.35 - AUTORE Prof. Ugo Avalle

gentile insegnante, nonostante quanto ha affermato G.Israel sul " Foiglio",gli insegnanti non sono dei " maniaci" delle certificazioni,della " medicalizzazione" sempre e comunque. Lei ha il dovere professionale di attivare tutte le strategie di intervento che possono porre l'allievo nella condizione di trovarsi a proprio agio in classe. fare " come se nulla fosse" non aiuta nè l'alunno nè lei docente: entrambi vi sentirete frustrati e vi sembrerà di ver costruito sul nulla. L'alunno Le "chiede" -anche se non direttamente- di essere aiutato nel superare gli ostacoli che gli impediscono di sentirsi come tutti gli altri. Quando vi sarà una diagnosi valuterà con i colleghi ed i genitori del soggetto il da farsi; tuttavia gli interventi realizzati in attesa della diagnosi ,se frutto di un'attenta osservazione e-quindi-ben calibrati,saranno di sicuro aiuto e non superflui.

DATA 28/06/2011 10.35.35 - AUTORE Serena_F712C

Mi fa piacere di aver ricevuto una risposta. Vorrei precisare che con il mio post, ho voluto farmi portavoce del senso di impotenza che colpisce, o può colpire, i docenti curricolari nell'attesa di una certificazione per i possibili alunni con DSA. Ho toccato con mano il senso di solitudine, di smarrimento che provano e quanto spesso fatichino a gestire contemporaneamente la classe(sempre più numerosa)e gli alunni con difficoltà(più di uno). Se fossi docente curricolare certamente agirei con coscienza e adotterei sicuramente le misure più idonee per arginare il problema ed aiutare l'alunno in difficoltà a prescindere dalla certificazione. Per quanto riguarda l'articolo da lei citato, non credo davvero che la scuola voglia "curare i sani" o costituire "lo stato di maggior benessere" ma assicurare un percorso d'apprendimento individualizzato per sviluppare le potenzialità di ogni alunno.

DATA 29/06/2011 21.17.45 - AUTORE Pia_F712V

Al termine della frequenza del corso base sulle difficoltà e sui disturbi di apprendimento posso affermare di aver maturato alcune riflessioni in merito. Fra le diverse tematiche ed i suggerimenti metodologici avanzati durante il percorso che ho maggiormente apprezzato (come la sistematica analisi, disciplina per disciplina, delle concrete difficoltà che gli alunni con DSA incontrano), vi è una considerazione, espressa dal relatore in una delle sue ultime lezioni, che merita un’attenzione speciale. Viene infatti affermato dal professor Avalle che “la disabilità di lettura, per quanto seria sia, non intacca le capacità cognitive, ma è “solo” una disabilità strumentale e, in quanto tali, gli strumenti si possono sostituire”. Mi piace molto quest’affermazione, perché credo che, in sintesi, esprima bene una difficoltà di apprendimento come la dislessia; anzitutto perché viene ammesso che essa in effetti può costituire un grave disagio e una grossa problematicità (nelle parole “per quanto seria sia”) ma pure che non è compromettente a livello mentale, e che, pertanto, esistono, bisogna trovare le modalità per ridimensionare questo disturbo, per compensarlo; infine, ed è ciò che ho apprezzato di più, “gli strumenti si possono sostituire”, ovvero la lettura è uno strumento, nient’altro che un mezzo per raggiungere un fine, e non lo scopo stesso dell’insegnamento della lingua italiana o magari, ancor peggio, della scuola medesima. Purtroppo l’errata concezione che la scuola senta e viva l’insegnamento della lettura e della scrittura come un compito primario, cioè come fine insostituibile, e non come metodo che consenta la conquista di traguardi ben più complessi e profondi (riuscire a costruire relazioni, sentirsi cittadino del mondo, esprimere se stessi….) è assai diffusa nell’utenza (ma anche, spesso, in buona parte del corpo docente). Anche nel passato, oltretutto, pensando alle funzioni della scuola si soleva dire che essa serviva “per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto”. Il largo uso, che talvolta diviene abuso per qualche collega stanca di usare la voce, di quaderni, libri e lavagna non ha fatto che alimentare questa convinzione. Di fronte all’incremento di alunni con DSA, diagnosticato o meno, di fronte alle loro famiglie spesso estenuate e scoraggiate dai problemi del figlio, io credo che ci sia urgente bisogno di ritornare alle basi, di ricordare e di ricordarci la funzione della lettura e della scrittura: quella comunicativa; perché, io penso, se tornassimo alle radici, alle motivazioni più profonde che hanno portato ad un così ampio impiego dello strumento letto-scrittura in ambito scolastico, allora sarebbe più semplice trovare delle strategie e delle alternative per questi allievi in difficoltà. Se ci ricordassimo più spesso che lettura e scrittura non sono fini a se stesse ma hanno scopo di comunicazione allora diverrebbe possibile pensare e magari trovare un modo per far comunicare anche gli scolari con DSA e per sostenerli, per motivarli, loro e le loro famiglie.

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